Dialetto VS Italiano: la mia esperienza
Sono cresciuta
in un paesino della provincia di Agrigento e poiché ho deciso di
intraprendere gli studi a Palermo, capita spesso che i miei colleghi mi
chiedano:”Ma da te come si dice…?” volendo confrontare i nostri dialetti. La
mia risposta è raramente preceduta da un “credo sia…” e quasi sempre consiste
in un “Non lo so”. Adesso come tempo fa, la reazione delle persone è abbastanza
sorpresa:”come fai a non conoscere il tuo dialetto?”, “fa parte della tua
tradizione”, “saper parlare il dialetto è conoscere le proprie origini”.
Nonostante io sia in parte d’accordo con queste affermazioni, sono cresciuta
con un pensiero totalmente differente.
A casa mia fin da
piccola non si era mai parlato in dialetto, ho conosciuto il siciliano del mio paese ascoltando i miei compagni di classe soprattutto alle elementari
e, ammetto, mi sentivo praticamente come una turista in un paese straniero,
comprendendo solo le espressioni più simili all’italiano; non solo perché a
casa mia si parlava solamente quello, ma anche perché fin da piccolissima mio
padre, essendo molto preciso nella lingua, mi aveva sempre abituato ad un italiano, seppur in
contesti familiari e quindi informali, parlato con un certo rigore nel lessico
e nella grammatica. Anzi si scagliava spesso e volentieri contro la convinzione
che ci fosse un linguaggio per la vita di
tutti i giorni in cui fossero concessi approssimazioni ed errori. “Se sbagli
un congiuntivo, non ti parlo più”, mi diceva scherzando, “Non parlare in
dialetto che poi storpi anche l’italiano”, aggiungeva con l’accordo di mia
madre. Potrebbe sembrare che io dica ciò con presunzione, in realtà questa mia
caratteristica non mi ha mai giovato, quantomeno da bambina e all’epoca mi
sentivo quasi un’aliena a non riuscire proprio ad assimilare il siciliano. Il
fatto di parlare un linguaggio definito non forbito, aulico o preciso come
potevano pensare i miei genitori, ma “strano” o “troppo adulto” e di non saper
parlare bene il mio dialetto mi è sempre costato infatti una difficoltà di
comunicazione e ammetto sorridendo anche alcune prese in giro, poiché molti
ritenevano parlassi in quel modo per una questione di “snobbismo” o appunto di
presunzione. Da qui fin da piccolissima reagivo cercando di parlare un
siciliano maccheronico, praticamente inventato da me, che mischiava all’italiano
quelle poche espressioni dialettali che conoscevo, oppure “traducendo” alcune frasi
siciliane per renderle più italiane. Ad esempio ricordo che dicevo spesso cose
come “non buttare voci” (traduzione del ittari
vuci, non so si scriva così), “che ama a fari”, quasi come se “ama” fosse
il verbo “amare”, “non ti prendere collera” (traduzione di un ti pigghiari colari) ecc.
Alle medie ho
cominciato finalmente a comprendere il siciliano, ma non a parlarlo spesso, se
non per quelle espressioni che ritenevo praticamente intraducibili in italiano
o che in dialetto potevano rendersi meglio, come per esempio mi vinni lu cori per indicare uno
spavento, m’affucavu per indicare
quando va di traverso qualcosa, ccà semu per
indicare una forma di rassegnazione verso una situazione che si sta vivendo,
ecc. Oppure usavo e uso spesso dei proverbi come curnutu e vastuniatu, comu veni si cunta, megghiu sulu ca mali
accumpagnatu, cu sa senti stringi i denti; ma in linea di massima ero sempre distante dal
mio dialetto. Ricordo quando andavo in prima media un episodio in particolare:
venne fatto un convegno con un poeta che scriveva poesie in siciliano, eravamo
tutti chiamati a leggerne una, quando fu il mio momento mi trovai davanti ad un
testo difficilissimo da comprendere, poiché il siciliano già parlato mi metteva
in crisi, figuriamoci scritto.
Ancora una volta
su di me ebbe un’influenza importante mio padre insegnandomi un po’ il latino
per prepararmi al liceo, mi appassionai molto e cominciai ad utilizzare
latinismi già a 12 anni. Non solo il classico idem, ma anche modi di dire come ubi major minor cessat, ad maiora, hic et nunc, carpe diem, rustica progenie semper villana fuit. Con
il passare del tempo non ho mai cambiato questa mia caratteristica, soprattutto
quando mi sono appassionata alla lettura, tendendo anche sempre più ad
utilizzare le espressioni che trovavo scritte nei libri, sostituendole ad altre
magari ritenute meno informali, per esempio anziché perché dicevo spesso in
quanto o poiché. Già dalle medie
mi sono appassionata all’etimologia ed alle parole, sfogliavo i dizionari alla
ricerca di termini il più possibile rari e nuovi da usare, difficili magari per
la mia età secondo qualcuno, ma che per me non hanno mai rappresentato un modo
per distinguermi o per vantarmi, bensì quasi un divertimento, amando sia
“parlare” quindi usare la lingua oralmente, che scrivere. Per questo, la classica
frase che dalle elementari fino a metà del mio percorso al liceo classico mi
sono sentita dire è stata:”Ma parla come mangi!”. Al liceo comunque questa
situazione era molto ridimensionata, in quanto ho frequentato le scuole
superiori ad Agrigento e nell’ambiente cittadino il dialetto è meno diffuso,
tuttavia essendo di vari paesini nella mia classe capitava spesso che ci si
confrontasse perché seppur appartenenti tutti alla stessa provincia, vi erano
comunque delle espressioni idiomatiche, esclusive del dialetto del proprio paesino.
Oltre i paesini
vicini, grazie alla televisione e al web, è possibile confrontarsi con diverse
culture e quindi con diversi dialetti e diverse lingue. Ad esempio essendo
appassionata di teatro, è capitato spesso che mi facessi influenzare da alcune
espressioni usate in qualche commedia napoletana di Edoardo De Filippo o di
Vincenzo Salemme; oppure che prendessi a usare espressioni in romanesco come
“mortacci tua” o milanese guardando qualche film (per un periodo ho usato
spesso la parola pirla perché
guardano Ale e Franz, due comici milanesi). Inoltre, ho sempre guardato serie
tv americane in lingua originale e ho preso l’abitudine di dire yep, anyway,
guys al posto di “già”, “comunque”, “ragazzi” (come vocativo) e guardando
anime ho cominciato addirittura a usare espressioni giapponesi come kawaii (carino), gomen (scusa), itadakimasu
(buon appetito), koishiteru (ti amo).
Sicuramente,
aggiungo, mi hanno influenzato tantissimo le mie amicizie di chat, ad esempio Valentina, che
ho conosciuto in chat nel 2010 insieme a Giulia, un’altra ragazza, entrambe
dell’Emilia-Romagna (la prima di un paesino in provincia di Forlì-Cesena, la
seconda di Bologna). Da loro ho imparato alcune parole del loro dialetto come speremma (speriamo) o sta’ bon (stai buono, come
a dire smettila), che comunque hanno
una semplice traduzione, ma anche espressioni davvero peculiari come ma va
là o eh dì. “In cambio” anche io
ho insegnato loro quel poco che so di siciliano: capita spesso che Valentina
riferendosi alla mole di lavoro da studiare la definisca un chiummo o che entrambe mi dicano mischina per consolarmi o amunì per incoraggiarmi.
Trovo sia un
aspetto veramente affascinante quello del confronto fra le lingue e quindi
anche fra i dialetti e che possa contribuire in qualche modo a diminuire le
differenze e i confini fra le persone. In particolar modo i dialetti contengono
una grande storia al loro interno, ogni parola rappresenta la cultura di un
paese. Lo stesso siciliano comprende parole quasi “poetiche” che da sole
esprimono moltissimi significati: come nica.
In teoria significa “piccola”, ma indica anche tenerezza, ingenuità, tanto
che quando andavo al liceo me ne hanno parlato per il canto popolare “Dimmi
dimmi apuzza nica” ed ho cominciato ad apprezzarne il valore. Ancora di più, quando
ho iniziato l’università a Palermo, ho potuto confrontarmi con moltissime
espressioni diverse che costituiscono le varianti del siciliano in tutta la
regione ed è stato molto interessante e anche divertente. In questi anni sono
arrivata alla conclusione che mio padre abbia fatto bene ad educarmi in questo
modo, perché vado fiera del mio italiano, ma che non debba necessariamente
essere “protetto” allontanando il dialetto, semplicemente non sostituendolo con
esso. È importante conoscere tutto ciò che ci riguarda e le lingue ci parlano di noi, di come siamo, da
dove veniamo ed entrare in contatto con più lingue possibili non ci impedisce
di parlare bene l’italiano, ma contribuisce ad ampliare i nostri orizzonti.
Silvia Argento
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